Carzano : un fatto, un sogno sfumato
Il «Fatto di Carzano», passato alla Storia anche come «Sogno di Carzano».
E’ il luglio del 1917 , da due anni l’Italia è in guerra ma il disastro di Caporetto non è ancora avvenuto.
Il settore di cui fa parte Carzano, in Trentino, è in qule periodo del tutto tranquillo : succede poco o niente, “normale” vita di guarnigione, per quanto possa essere normale la vita di trincea nella Grande Guerra.
In linea d’aria, però, a pochi chilometri ci sono l’Ortigara ed il Lagorai, cime su cui si era combattuto e si combatteva aspramente.
Un sottufficiale austro-ungarico facente parte di un reggimento bosniaco, riesce a superare le prime linee difensive a Carzano e si presenta disarmato ai militari del Regio Esercito: ha con un sé un plico di diverse pagine e chiede di poter parlare con un ufficiale superiore.
Il plico contiene diverse cartine della prima linea austro-ungarica della zona e serve come “prova di buona volontà” inviata da un ufficiale austo-ungarico, il capitano Ljudvik Pivko, chiaramente di sentimenti antiasburgici.
Compito del sottufficiale è quindi porre le basi per un successivo incontro fra il Capitano Pivko ed ufficiale del Regio Esercito per quello che, inizialmente, pare essere semplicemente una diserzione da parte di alcuni elementi del reggimento bosniaco.
L’incontro avviene pochi giorni più tardi e per il Regio Esercito vi partecipa il maggiore Cesare Pettorelli Lalatta, vice capo del Servizio Informazioni della 1ª Armata.
E’ a questo punto che la proposta del capitano Pivko assume contorni molto più importanti e con prospettive di largo respiro: Pivko dichiara che durante la guerra il suo popolo è utilizzato come carne da macello e propone quindi di collaborare per la sconfitta dell’Austria-Ungheria.
La sua intenzione è quella di dar modo agli italiani di compiere un colpo di mano o un’operazione offensiva: «Disertare da solo, senza fare del male all’impero, è troppo poco, danneggerei solo la mia famiglia senza raggiungere un risultato positivo».
L’idea è semplice: accordarsi con gli italiani per concordare un attacco del Regio Esercito durante il quale le già deboli difese del settore austro-ungarico sarebbero state ulteriormente indebolite o del tutto neutralizzate da parte del capitano Pivko e di alcuni dei suoi uomini : concordate data ed ora dell’attacco italiano, Pivko con altri congiurati avrebbe provveduto ad addormentare gli uomini di guardia in linea, narcotizzandoli, ed a garantire l’apertura di un varco.
L’occasione pare troppo ghiotta per farsela sfuggire. Poter passare le linee austro-ungariche in quel settore avrebbe signiificato aprire la strada che lungo la Valsugana porta a Trento, in quel momento debolmente difesa da pochi territoriali e mettere in difficoltà i rifornimenti austriaci per gli Altipiani, bloccandoli tra Levico e Pergine.
Inizia in questo modo l’operazione Carzano: un colpo di mano per irrompere nella prima linea nemica, penetrare i paesi di Borgo, Novaledo, Levico, Calceranica, Mattarello e lasciarsi alle spalle tutta la zona fortificata degli Altipiani, mentre, con un’azione indipendente e parallela, un altro gruppo sarebbe pronto a sorprendere alle spalle le truppe austriache trincerate a Trento.
Pivko avrebbe fatto trovare la via aperta sul fondo della Valsugana, in corrispondenza al fronte tenuto dal suo battaglione. Attraverso questa falla si sarebbe insinuato alla chetichella dapprima il battaglione italiano di testa il quale, fra l’altro, avrebbe preso in consegna, come prigionieri, i soldati del battaglione di Pivko, accantonati ed addormentati nella chiesa di Carzano con narcotico fornito in anticipo dagli italiani.
Pivko con i suoi congiurati avrebbe provveduto a togliere la corrente elettrica dai reticolati, a tagliare le comunicazioni telegrafiche e telefoniche con Borgo e Trento, a fornire guide per condurre le singole pattuglie e colonne di testa.
Tutto è pronto, dunque, perfino il narcotico per drogare le truppe. Nei numerosi incontri successivi, i servii italiani ed il disertore sloveno mettono in luce ogni particolare. Niente deve essere lasciato al caso. Il rischio per Pivko e i suoi uomini non è solo la morte, ma una morte infamante: essere ricordati non come patrioti, ma con l’accusa di traditori.
Il maggiore Pettorelli Lalatta chiede subito un incontro con il generale Cadorna per spiegare i dettagli dell’opportunità ma né Cadorna né il generale Donato Etna, comandante delle truppe nella Valsugana, si fidarono del piano di Pivko. Dopo insistenti richieste, il 7 settembre venne deciso che l’azione sarebbe stata portata avanti ma quello che mancava da subito era la convinzione dei comandi Italiani sulla bontà dell’occasione che si presentava.
Finalmente viene fissata la data dell’attacco italiano : il 18 settembre 1917 e vengono preparate le truppe che vi parteciperanno. Si tratta di circa 40.000 uomini tra quanti devono effettuare lo sfondamento vero e proprio e le truppe che devono pi sfruttarlo.Il comando dell’operazione viene affidato al generale Attilio Zincone, nuovo della zona e alla sua prima esperienza di comandante di truppe in combattimento.
Allo scattare dell’ora concordata per l’attacco i congiurati bosniaci aprono la strada al Regio Esercito . Le truppe che avanzano trovano varchi aperti nei reticolati ai quali è anche stata tolta la corrente elettrica; le linee telefoniche e telegrafiche sono state interrotte e, soprattutto, i soldati nemici addormentati con l’oppio fornito dagli Italiani e aggiunto nel rancio della sera dai collaboratori del Capitano Pivko. Pivko ed i suoi uomini stanno facendo da guida alle colonne italiane, dopo aver fornito mappe dettagliate e tutte le informazioni sulle poche artiglierie nemiche.
Con queste condizioni si tratta di un’occasione più unica che rara, un sogno per i soldati che vi partecipano increduli.
Per le prime fasi dell’azione il generale Zincone impiegò truppe che non conoscevano il territorio e che sono state dotate di un equipaggiamento pesante (coperta, telo, tenda, razioni, viveri per più giorni, armamento pesante).
L’azione però parte subito male: le unità del Regio Esercito vengono guidate per errore attraverso un camminamento largo 80 centimetri anziché sulla strada larga 4 metri, ingolfandosi e perdendo lo slancio necessario. Solo i bersaglieri del 72º Battaglione,al comando del maggiore Ramorino ed inviati per primi ad avanzare, raggiungono il paese di Carzano senza il sostegno della fanteria che aveva sbagliato strada; è qui che il maggiore Pettorelli Lalatta si accorge di quanto sta accadendo e cerca di porvi rimedio tornando verso le linee italiane per collegarsi con i reparti ritardatari.
È sempre più impaziente, Pivko, guarda continuamente l’orologio. Sono le dieci. A quest’ora gli italiani dovrebbero già essere a Carzano, ma non si vede neppure un’ombra.
«Abbiamo perso già due ore», scrive lo sloveno, «gli accordi prevedevano che a quest’ora tutta la Valsugana, da Salubio e Caverna e fino al Civarone, fosse nelle mani degli italiani e colonne di motociclisti stessero inoltrandosi verso Borgo e Roncegno. L’artiglieria lungo il Ceggio e sul San Pietro sarebbe dovuta essere nelle loro mani mentre, vicino a Castelnuovo, gli operosi genieri avrebbero dovuto allestire il ponte per gli automezzi… la prima e la seconda fase della nostra azione sarebbero dovute essere già esaurite! E invece non abbiamo neppure iniziato! Non si sente nulla. Tutto tace. Ora comincio veramente a preoccuparmi di cosa sia successo.»
Ma il momento giusto è stato perso : alcune vedette austro-ungariche che non partecipano alla congiura si sono accorte del movimento e sono anche allarmate dai mancati collegamenti tra i posti di guardia: l’artiglieria Imperial-Regia inizia il fuoco verso i reparti italiani.
L’attacco, indeciso e mal organizzato, si è trasformato in pochissimo tempo in una tragedia.
Il grosso degli uomini non arriva ed è terribilmente tardi. Sembra incredibile, ma sono ancora fermi a Strigno e a Bassano agli ordini del generale Zincone. Non solo. Alla prima, debole reazione nemica, il generale non trova di meglio da fare che ordinare la ritirata, senza neppure tentare una reazione. «La divisione di testa, quella del generale Zincone, si mosse con la velocità della lumaca. Invece di correre sulle libere strade si snodò sospettosa nei camminamenti e procedette coi piedi talmente di piombo che si persero due ore buone senza concludere nulla. Dopo di che il nemico cominciò a comprendere che c’era nell’aria qualcosa di anormale;
Il generale Zincone a questo punto impartisce l’ordine di ritirata, che però non giunge al 72º Bersaglieri che rimane quindi isolato a Carzano dove, per effetto del contrattacco nemico, viene praticamente distrutto: 900 uomini vengono fatti prigionieri e 360 rimangono uccisi mentre cercano di ripiegare.
Il sogno di Carzano -arrivare sino a Trento- si risolve così in un inutile bagno di sangue.
Un fallimento su tutta la linea. Gli italiani, imbarazzati, mettono tutto a tacere. Lo stesso fanno gli austriaci, spaventati.
L’opportunità sprecata da parte del Regio Esercito forse non avrebbe portato a Trento ma senz’altro avrebbe assestato un colpo non indifferente all’esercito Austro-Ungarico mentre questo era impegnato nei preparativi di quella che sarebbe stata la battaglia di Caporetto.
Difficile dire quali sarebbero state le ripercussioni ma è ovvio che le cose sarebbe andate diversamente : anche solo un rinvio da parte Austro-Ungarica dell’attacco su Caporetto poteva modificare quello che è poi avvenuto.
Due anni dopo l’operazione Carzano, il giornalista e corrispondente di guerra Ugo Ojetti dichiara alla testata Il Secolo: «La verità non sarà mai dimenticata: la battaglia di Caporetto non avrebbe mai avuto luogo, poiché un mese prima, a Carzano, nella notte fra il 17 e il 18 settembre 1917, sarebbe avvenuta la sconfitta degli austriaci in seguito all’attuazione del piano del tenente colonnello Finzi predisposto con intelligenza, disciplina, precisione e fiducia».