Le spallate di Cadorna
La Prima Guerra Mondiale fu una carneficina la cui tragedia, oggi, non può essere del tutto compresa né tantomeno raccontata.
Anche i racconti e le descrizioni fatte da chi ha vissuto in prima persona la Prima Guerra Mondiale credo che non riescano a trasmettere l’orrore e le sofferenze di chi viveva e moriva in trincea.
Come ha scritto Carlo Salsa in ‘Trincee. Confidenze di un fante’ “Non si può immaginare. Bisogna vedere.”
Tutti gli ufficiali, dal più alto in grado a scendere, continuavano a mandare all’assalto reggimenti , brigate e divisioni. Sempre con lo stesso risultato: migliaia di morti e pochi o nulli guadagni territoriali: si pensava di poter eliminare la resistenza nemica a “spallate”: era la tattica del Gen. Cadorna che prevedeva una serie di offensive intese a mettere gli Austro-Ungarici con le spalle al muro, in una guerra di materiali e di attrito.
Per il capo di stato maggiore Luigi Cadorna, soprannominato “il generalissimo” l’unica via possibile era – per tutti – concentrare un pauroso fuoco di artiglieria in un unico punto dello schieramento avversario e, subito dopo, una volta aperto un varco fra i reticolati, irrompere con la fanteria.
“Tranne casi eccezionalissimi – prescriveva Cadorna – la fanteria non può arrivare a sferrare l’assalto se prima l’artiglieria non abbia spianata la via, spezzando, coll’impeto e la massa del suo fuoco, ogni resistenza avversaria nella zona d’irruzione”.
Quello che accadeva realmente era che l’artiglieria cominciava a sparacchiare per qualche ora. Il più delle volte, il tiro era troppo impreciso e produceva pochi danni ai reticolati e alle difese avversarie. Certo non toccava gli uomini dell’esercito Austro-Ungarico che durante il bombardamento rimanevano al riparo.
Quando l’ultimo colpo di cannone si frantumava oltre le linee, seguiva qualche minuto di silenzio. Era il segnale che gli italiani si stavano preparando a uscire allo scoperto per un assalto alla baionetta. A quel punto, gli avversari avevano tutto il tempo di prendere posizione, mirare e fare fuoco.
Il modus operandi del Regio Esercito era persino troppo prevedibile e il nemico aveva capito che i comandanti avversari, senza fantasia e senza ingegno, riproducevano ogni volta lo stesso copione.
D’altronde Cadorna pensava che tutti i problemi di strategia militare potessero trovare risposta e soluzione nelle pagine di un libricino che aveva scritto: erano pochi capitoli, perché in fondo non ci voleva molto per condensare compiutamente il suo pensiero: “attacco frontale”. Tutti a seguire l’edizione del suo libretto di tattica (pubblicato a Roma), che nel febbraio 1915 fu distribuito a tutti gli ufficiali, col titolo Attacco frontale ed ammaestramento tattico .
I suoi ufficiali sottoposti, per evitare di essere silurati, presero a comportarsi con sudditanza. Cadorna ordinava l’attacco? I comandanti eseguivano seguendo quanto descritto nella famigerata libretta rossa e dalle numerose circolari che furono emanate da Cadorna per aggiornarla.
Qualcuno sapeva che l’assalto non avrebbe portato risultati, ma prima della vita dei suoi uomini veniva la propria personale carriera. Perciò avanti, pretendendo – con la noncuranza che si riserva alle questioni di secondaria importanza – che i soldati si facessero ammazzare.
Quindi avanti a testa bassa, sempre e comunque. La corsa contro il nemico doveva essere “tumultuosa e irruente” in quanto l’avanzare attaccando costringeva il difensore a stare a testa bassa ed a spare alto. E se proprio il nemico avesse reistito rispondendo al fuoco con precisione bisognava sottrarsi all’offesa. E come? «Andando avanti con maggiore celerità.»
Quella delle “spallate” è una strategia che caratterizza la guerra italiana durante tutte le battaglie dell’Isonzo, ma che sembra ignorare le innovazioni prodotte dalla guerra moderna e Cadorna , un uomo testardo, ostinato, autoritario che non ammetteva limiti al suo potere, ebbe nelle sue mani centinaia di migliaia di ragazzi destinati a finire nei cimiteri e negli ospedali.