La preparazione dell’offensiva austro-ungarica (o battaglia del Solstizio) del 1918
Come e perchè l’impero AustroUngarico è arrivato alla battaglia del Solstizio del 1918 ?
Nel marzo del 1918, Arz von Straussenburg, capo di stato maggiore austro-ungarico, rassicurò gli alleati tedeschi riguardo alla preparazione di un’offensiva estiva contro il fronte italiano, progettata in concomitanza con l’avanzata primaverile di Ludendorff sul fronte occidentale. Tuttavia, i rapporti tra i due imperi centrali erano già compromessi da tempo. L’impero Austro-Ungarico, ormai sull’orlo della carestia e allo stremo delle forze, dipendeva in modo cruciale dagli aiuti tedeschi, che avevano garantito la sua sopravvivenza sul fronte orientale e reso possibile lo sfondamento di Caporetto.
Questa situazione portò a un acceso dibattito all’interno dello stato maggiore austro-ungarico, con due posizioni strategiche contrapposte. Da un lato, il feldmaresciallo Conrad, comandante del fronte alpino, proponeva un grande attacco dal Tirolo, che avrebbe colpito le difese italiane sull’altopiano di Asiago e sul Monte Grappa, per poi avanzare nella pianura del Brenta. Il piano includeva inoltre lo sfondamento delle difese del Monte Tomba, seguito da una discesa verso il Piave e Pederobba, con l’obiettivo di raggiungere Treviso, Padova e infine Venezia.
Dall’altro lato, il feldmaresciallo Svetozar Borojević suggeriva una strategia differente: concentrare l’offensiva lungo il corso del Piave, sfruttando l’isola Grave di Papadopoli, nel territorio di Cimadolmo, e l’area strategica presso il Ponte di Piave, dove il fiume si restringeva, rendendo più agevole l’attraversamento. Inoltre, anche il territorio di San Donà di Piave offriva condizioni favorevoli per approfittare di una simile configurazione.
L’8 marzo, il reparto operazioni del Comando Supremo presentò un proprio piano d’attacco, che prevedeva un’offensiva principale lungo il Brenta, supportata da un attacco diversivo nelle Grave di Papadopoli, a sud del Montello. La proposta era di rinunciare all’idea di forzare l’Altopiano di Asiago, considerato troppo difficile dal punto di vista tattico, così come di evitare un attacco sul Montello per motivi simili. Il concetto generale rimaneva quello di una manovra a tenaglia, con bracci diseguali, che avrebbe offerto il vantaggio di un punto di attacco più stretto rispetto a quello inizialmente ipotizzato da Conrad.
Il 23 marzo, il comando austro-ungarico approvò, seppur con alcune modifiche, il piano di Conrad. L’operazione principale, denominata “Radetzky”, si sarebbe sviluppata a cavallo del Brenta e dall’Altopiano di Asiago, puntando a colpire la linea del Bacchiglione, tra Padova e Vicenza, per aggirare le difese italiane lungo il Piave.
Oltre a questo, furono previste due operazioni minori. L’operazione “Lawine” (valanga) puntava a conquistare posizioni strategiche sul Passo del Tonale, avanzando verso Ponte di Legno e minacciando così direttamente la Lombardia e Milano. Un’ulteriore operazione, “Albrecht”, mirava invece a superare il Piave e dirigersi verso Treviso.
Nonostante il numero limitato di divisioni disponibili – dodici in tutto, di cui una di cavalleria, inutilizzabile nella fase iniziale – l’esercito austro-ungarico procedette con il piano. Dopo ulteriori revisioni e discussioni, la decisione finale venne presa il 21 aprile: sarebbero stati lanciati due attacchi principali contemporaneamente, uno da parte di Conrad e l’altro da Borojević. L’operazione “Lawine” sarebbe stata avviata alcuni giorni prima, con l’obiettivo di attirare le riserve italiane.
In sintesi, la direttiva del comando chiariva che l’obiettivo era quello di condurre un attacco a tenaglia, con operazioni parallele di pari importanza strategica.
Nessuno, al Comando Austro-Ungarico, pare rendersi conto che vi è una quasi assoluta parità d’effettivi tra i due eserciti contrapposti, che occorre affrontare linee predisposte a difesa già da molto tempo, e che per farlo si deve varcare un fiume insidioso e superare aspre cime montane.
In questa cecità, si nascondono le due potenti molle dell’ultima impresa austro-ungarica: la coscienza del fatto che l’edificio militare dell’impero sta crollando, e la convinzione di poter comunque battere l’esercito italiano.
La monarchia bicipite, il corpo degli ufficiali, le alte gerarchie dell’impero sanno che questo non solo è l’ultimo sforzo, ma anche che, se fallisse, sarebbe il crollo totale del mondo in cui essi hanno creduto e che continuano a servire, con orgoglio, ma anche con tristezza.
Alle mense ufficiali si brinda a questa « ultima carica», con la coscienza che è forse meglio morire sul campo di battaglia, piuttosto che assistere alla fine di un vecchio e glorioso impero.
Morire, ma anche spezzare la schiena all’antico ed odiato nemico, il « gatto italiano»: la posta militare viene affrancata con francobolli sui quali si vede un erculeo guerriero che con una clava gigantesca uccide appunto un gatto.
La frase lapidaria al centro del bollo è “Schmach über Italien!” (Vergogna sull’Italia!)
Carlo I rifiuta di mandare truppe austriache in Francia proprio perché sa che i suoi soldati sono concordi soltanto su un punto: quello di punire « i traditori italiani». L’operazione principale viene battezzata « Radetzky», per terrorizzare il nemico col ricordo dell’odiato maresciallo austriaco.
Alle proprie truppe Il comando austriaco promette, né più né meno, il saccheggio dei formidabili magazzini italiani, nonché delle proprietà della popolazione civile.
Tra febbraio e maggio del 1918, l’esercito austroungarico ha letteralmente sofferto la fame: soltanto ai primi di giugno vengono nuovamente distribuite razioni normali. Ma appunto per questo la doppia idea della vendetta sull’Italia e del bottino fa presa.
Ogni soldato austroungarico dimentica le sofferenze di una lunga guerra di fronte all’antica febbre del soldato attratto dall’idea di incendiare, rubare, violare.
Ed il soldato austriaco sa che questo sogno non è illusorio; dopo Caporetto, ha constatato di persona cosa significa saziare la fame, entrare nelle case ricche ed abbandonate, veder tremare al passaggio popolazioni vinte.
Il fallimento di un piano ambizioso in poche ore
La discrepanza tra le grandi aspettative del piano e i risultati modesti ottenuti fa ipotizzare che l’esercito Austro-Ungarico fosse ormai logorato e incapace di conseguire successi significativi.
L’offensiva, sebbene non fosse del tutto inattesa, era temuta da tempo, ma non ci si può appellare a una nostra “superpreparazione”.
Le truppe italiane e alleate si dimostrarono resistenti, soprattutto sul fronte montano, ma gli attacchi nemici mancarono della determinazione e della violenza necessarie. Già la sera del 15, Conrad fu costretto a richiedere rinforzi per arginare i contrattacchi previsti, non per continuare l’offensiva.
Il Montello rappresenta la prova evidente che la qualità delle truppe giocò un ruolo decisivo: su questa posizione strategica, l’Austria-Ungheria si trovò vicina a ottenere un successo che avrebbe potuto cambiare radicalmente il corso della guerra e della storia europea.
La battaglia del Solstizio rappresentava l’ultima possibilità per l’esercito austro-ungarico di capovolgere le sorti del conflitto. Tuttavia, il suo fallimento, aggravato dalle pesanti perdite e dalla situazione socio-economica disastrosa dell’Impero, segnò di fatto l’inizio della sua fine.